Tra le stanze di Take Five, ecco l’intervista alla
scenografa del film, Maica Rotondo.
Quali sono stati i
momenti di maggiore stress durante il corso delle riprese?
Me ne ricordo due in
particolare. Il primo è stata la preparazione del set fotografico, lo studio di
Sasà Striano. Dovevamo essere pronti per una data precisa e avevamo tempi
stretti e poca disponibilità economica. In
quel caso abbiamo dovuto fare tutto da capo: dalla pulizia alla ristrutturazione
degli ambienti concludendo con l’arredamento, i dettagli, gli oggetti che
raccontassero il proprietario dello studio. Il secondo momento è stata la
preparazione del caveau della banca dove si sono ripetute le stesse dinamiche
ma con una problematica in più. Infatti, per quanto riguarda lo studio, Guido l’aveva
visto già durante la preparazione. Invece, per il caveau ciò non è potuto
succedere e quindi il giorno delle riprese ero molto tesa perché non sapevo se
gli sarebbe piaciuto e se corrispondeva a ciò che aveva immaginato. Per fortuna è andata bene.
C’è qualche scena cui sei legata maggiormente?
La scena nella banca
centrale nella sala neorinascimentale del Palazzo della Borsa mi ha emozionata particolarmente,
anche per il tipo di inquadrature scelte da Guido. Non mi immaginavo che
sarebbe venuta così. Anche la scena al Lanificio, quando i cinque protagonisti
scavano il buco, o l’incontro clandestino di box. In realtà è insolito dare
tanta importanza alle location e alla scenografia in un film a basso costo e
quindi la soddisfazione è stata molta soprattutto per le scene girate negli
ambienti più problematici.
Come ti sei trovata a lavorare con la troupe?
Mi sono trovata bene.
Molti già li conoscevo. Abbiamo fatto insieme Là-bas e quindi c’era già
affiatamento. Con Guido, l’aiuto Sergio Panariello, il direttore della
fotografia Francesca Amitrano, e con la costumista Francesca Balzano siamo
riusciti a coordinarci tra mille difficoltà, location complicate e tempi
serrati sui quali la produzione ci ha marcato stretto. L’unico difetto è che forse
in alcuni momenti eravamo in troppi sul set e questo credo sia da evitare
perché fa calare la concentrazione. Tuttavia
c’è stata sicuramente una buona comunicazione tra i vari reparti.
Com'era il tuo rapporto con gli attori?
Lo scenografo non ha un
rapporto così diretto con gli attori rispetto a quello che può avere regia o
costumi. Però è stato bello perché loro si sono emozionati molto quando hanno
visto gli spazi e la scenografia. Per esempio, Peppe Lanzetta è rimasto stupefatto
dalla ricostruzione dello studio fotografico e subito si è adattato sentendosi
nel posto giusto. Questo mi ha dato soddisfazione. È stato piacevole.
E con il regista?
La bellezza del
rapporto con Guido è che sta crescendo. In passato abbiamo avuto dei problemi in
Là-bas, legati soprattutto alla comunicazione: a me non arrivava bene ciò che
lui desiderava e io non riuscivo a spiegargli i miei problemi. Per Take Five,
invece, ho cercato di aggirare l’ostacolo. Ci siamo chiariti. Gli ho detto di fidarsi
di me perché con la fiducia reciproca possiamo crescere. Dopo quel chiarimento c’è
stato maggior affiatamento ed è andata meglio, anche se non è stato semplice.
Bisogna considerare che Guido ha la caratteristica che all’ultimo momento
cambia idea, però tendo di accontentarlo fino all’ultimo.
C’è qualche episodio del dietro le quinte che vuoi
raccontarci?
Quando dovevamo girare
nel caveau della banca c’era molta tensione. Eravamo a metà del film. La
produzione era tesissima perché avevamo accumulato qualche ritardo nel corso
delle giornate passate. Arrivati sul set a Piazza Telematica, Guido ed io
concordammo che l’ambiente era troppo asettico e pensammo di aggiungere un
quadro contemporaneo. Mentre ho cominciato prepararlo gli altri stavano
sistemando le attrezzature. Improvvisamente dalla produzione ci fu un richiamo tanto
forte quando ingiustificato nei miei confronti, come se fossi in ritardo di
chissà quanto mentre il set era pronto. Io ho cercato di mantenere la calma.
Anzi, la violenza della discussione mi ha ispirato. Così, sul supporto di una
quinta di riserva di tre metri per uno ho realizzato uno spizzo rosso sul fondo
bianco. È stato il quadro che mancava. In realtà una dedica per il produttore
esecutivo che mi ha rimproverato. Lui lo sa, anzi, al termine della giornata ci
siamo fatti una bella risata.
Come sei arrivata a lavorare nel cinema?
Ho iniziato con Antonio
Capuano all’Accademia delle belle arti. Dapprima in spettacoli teatrali e poi
in alcuni video realizzati dall’Accademia stessa. Infine è arrivato il mio
primo film, La guerra di Nario, dove Capuano mi chiamò come volontaria. Da quel
momento si è creato un forte legame con lui, che mi ha chiamato anche per altri
spettacoli. Devo ammettere che è stato proprio Antonio Capuano a formarmi.
Hai consigli per chi vorrebbe intraprendere questa carriera?
Avere voglia di fare è
importante, ma fondamentale è avere l’umiltà di sapere di essere ignoranti.
Abbiamo sempre da imparare e l’approccio giusto credo sia questo. Ci vuole
molta energia e forza ma soprattutto una grande dose di umiltà.
(Intervista
a cura di Giorgio Caurso, foto di Tiziana Mastropasqua)