lunedì 6 maggio 2013

Interviste dietro le quinte: Maica Rotondo, scenografa



Tra le stanze di Take Five, ecco l’intervista alla scenografa del film, Maica Rotondo.

 

Quali sono stati i momenti di maggiore stress durante il corso delle riprese?

Me ne ricordo due in particolare. Il primo è stata la preparazione del set fotografico, lo studio di Sasà Striano. Dovevamo essere pronti per una data precisa e avevamo tempi stretti e poca disponibilità economica.  In quel caso abbiamo dovuto fare tutto da capo: dalla pulizia alla ristrutturazione degli ambienti concludendo con l’arredamento, i dettagli, gli oggetti che raccontassero il proprietario dello studio. Il secondo momento è stata la preparazione del caveau della banca dove si sono ripetute le stesse dinamiche ma con una problematica in più. Infatti, per quanto riguarda lo studio, Guido l’aveva visto già durante la preparazione. Invece, per il caveau ciò non è potuto succedere e quindi il giorno delle riprese ero molto tesa perché non sapevo se gli sarebbe piaciuto e se corrispondeva a ciò che aveva immaginato. Per fortuna è andata bene.

C’è qualche scena cui sei legata maggiormente? 

La scena nella banca centrale nella sala neorinascimentale del Palazzo della Borsa mi ha emozionata particolarmente, anche per il tipo di inquadrature scelte da Guido. Non mi immaginavo che sarebbe venuta così. Anche la scena al Lanificio, quando i cinque protagonisti scavano il buco, o l’incontro clandestino di box. In realtà è insolito dare tanta importanza alle location e alla scenografia in un film a basso costo e quindi la soddisfazione è stata molta soprattutto per le scene girate negli ambienti più problematici.

Come ti sei trovata a lavorare con la troupe? 

Mi sono trovata bene. Molti già li conoscevo. Abbiamo fatto insieme Là-bas e quindi c’era già affiatamento. Con Guido, l’aiuto Sergio Panariello, il direttore della fotografia Francesca Amitrano, e con la costumista Francesca Balzano siamo riusciti a coordinarci tra mille difficoltà, location complicate e tempi serrati sui quali la produzione ci ha marcato stretto. L’unico difetto è che forse in alcuni momenti eravamo in troppi sul set e questo credo sia da evitare perché fa calare la concentrazione. Tuttavia c’è stata sicuramente una buona comunicazione tra i vari reparti. 

Com'era il tuo rapporto con gli attori?
 
Lo scenografo non ha un rapporto così diretto con gli attori rispetto a quello che può avere regia o costumi. Però è stato bello perché loro si sono emozionati molto quando hanno visto gli spazi e la scenografia. Per esempio, Peppe Lanzetta è rimasto stupefatto dalla ricostruzione dello studio fotografico e subito si è adattato sentendosi nel posto giusto. Questo mi ha dato soddisfazione. È stato piacevole.

E con il regista?
 
La bellezza del rapporto con Guido è che sta crescendo. In passato abbiamo avuto dei problemi in Là-bas, legati soprattutto alla comunicazione: a me non arrivava bene ciò che lui desiderava e io non riuscivo a spiegargli i miei problemi. Per Take Five, invece, ho cercato di aggirare l’ostacolo. Ci siamo chiariti. Gli ho detto di fidarsi di me perché con la fiducia reciproca possiamo crescere. Dopo quel chiarimento c’è stato maggior affiatamento ed è andata meglio, anche se non è stato semplice. Bisogna considerare che Guido ha la caratteristica che all’ultimo momento cambia idea, però tendo di accontentarlo fino all’ultimo.

C’è qualche episodio del dietro le quinte che vuoi raccontarci?
 
Quando dovevamo girare nel caveau della banca c’era molta tensione. Eravamo a metà del film. La produzione era tesissima perché avevamo accumulato qualche ritardo nel corso delle giornate passate. Arrivati sul set a Piazza Telematica, Guido ed io concordammo che l’ambiente era troppo asettico e pensammo di aggiungere un quadro contemporaneo. Mentre ho cominciato prepararlo gli altri stavano sistemando le attrezzature. Improvvisamente dalla produzione ci fu un richiamo tanto forte quando ingiustificato nei miei confronti, come se fossi in ritardo di chissà quanto mentre il set era pronto. Io ho cercato di mantenere la calma. Anzi, la violenza della discussione mi ha ispirato. Così, sul supporto di una quinta di riserva di tre metri per uno ho realizzato uno spizzo rosso sul fondo bianco. È stato il quadro che mancava. In realtà una dedica per il produttore esecutivo che mi ha rimproverato. Lui lo sa, anzi, al termine della giornata ci siamo fatti una bella risata.

Come sei arrivata a lavorare nel cinema?
 
Ho iniziato con Antonio Capuano all’Accademia delle belle arti. Dapprima in spettacoli teatrali e poi in alcuni video realizzati dall’Accademia stessa. Infine è arrivato il mio primo film, La guerra di Nario, dove Capuano mi chiamò come volontaria. Da quel momento si è creato un forte legame con lui, che mi ha chiamato anche per altri spettacoli. Devo ammettere che è stato proprio Antonio Capuano a formarmi.

Hai consigli per chi vorrebbe intraprendere questa carriera?
 
Avere voglia di fare è importante, ma fondamentale è avere l’umiltà di sapere di essere ignoranti. Abbiamo sempre da imparare e l’approccio giusto credo sia questo. Ci vuole molta energia e forza ma soprattutto una grande dose di umiltà.

(Intervista a cura di Giorgio Caurso, foto di Tiziana Mastropasqua)